Stefano Odoardi
Italia, Olanda, 2014
73 minuti
Nel cuore lacerato de L'Aquila, i sopravvissuti (venti abitanti, attori non professionisti) allo sconvolgente terremoto del 2009 vagano ora come relitti ambulanti tra le macerie. Essi sono i "Dannati" senza colpa, poichè intrappolati senza preavviso in una dimensione decadente che effonde i vapori zolfini di un inferno piombato direttamente sulla terra. Colpiti nel più profondo dell'animo, privati della loro esistenza passata, degli affetti e delle cose più care.
Italia, Olanda, 2014
73 minuti
Nel cuore lacerato de L'Aquila, i sopravvissuti (venti abitanti, attori non professionisti) allo sconvolgente terremoto del 2009 vagano ora come relitti ambulanti tra le macerie. Essi sono i "Dannati" senza colpa, poichè intrappolati senza preavviso in una dimensione decadente che effonde i vapori zolfini di un inferno piombato direttamente sulla terra. Colpiti nel più profondo dell'animo, privati della loro esistenza passata, degli affetti e delle cose più care.
Anche le lacrime sembrano essicarsi, il dolore subito è ancora troppo intenso; manca lo sfogo, la compiuta elaborazione del lutto. Possono solamente attendere l'arrivo di un "Angelo" (interpretato da Angèlique Cavallari), liberato da una dimensione equidistante che ancora vede il rigoglioso profondersi della natura. Ispirato dalle Elegie Duinesi di Rainer Maria Rilke, percorre anch'egli quell'inferno contemporaneo per congiungersi a queste anime in un indissolubile abbraccio, che possa in loro infondere nuovamente la speranza, nel ricomporre i frammenti delle proprie esistenze...
Mancanza- Inferno, presentato in anteprima mondiale all'ultimo IFFR, è il primo passo verso un'annunciata trilogia (Mancanza-Purgatorio è già in lavorazione), che ha visto la luce grazie al supporto del crowfunding e associazioni Onlus quali l’Hatha Ciudad dell’Aquila, ma è, innanzitutto, un esperimento temerario (molte sono le scelte ardimentose: dalla mancanza di sceneggiatura all'utilizzo di differenti strumenti tecnici e linguistici - i formati di registrazione, la letteratura, l'improvvisazione). Un rinnovato affresco visionario nell'asfittico panorama del cinema italiano, in quanto è un film che volge con consapevolezza il suo sguardo all'Europa più art-house, perseguendo quel cinema diverso (e soprattutto libero) che in pochissimi, nel nostro paese, hanno finora avuto il coraggio di affrontare (seppur contraddistinti da stili differenti, Frammartino, Santini...). Una prospettiva importantissima e ammirevole, per svincolarsi dai soliti stereotipi narrativi e attoriali imposti da una cinematografia oramai avvizzita, spenta come lo sguardo di quei venti abitanti aquilani colpiti nel profondo dalla tragedia. E il film del regista abruzzese (ma oramai stabilito in Olanda), ha il pregio di non risolversi prosaicamente in un'indagine documentaristica al solo livello territoriale sulle conseguenze del sisma, ma di configurarsi invece più collettivamente, come un vero e proprio viaggio introspettivo nel vuoto interiore di ogni essere umano che ha subito una mancanza. Ogni pensiero espresso da uno dei sopravvissuti al dramma, ogni suo gesto, lo possiamo infatti cogliere nel nostro intimo, perchè in qualche modo legato a un'esperienza di vita, a una perdita, anche la più apparentemente insignificante. Sotto questa prospettiva, Stefano Odoardi si rivela esploratore poetico delle macerie umane; egli è il Sharunas Bartas nostrano, cattura con la stessa silenziosità gli stessi volti attoniti, la stessa umanità inamovibile colpita nel profondo da eventi drammatici (il ritorno all'indipendenza del popolo lituano dopo il dominio sovietico in The Corridor, ad esempio). La città de L'Aquila, avvolta nella riverberazione del suo desolante vuoto è l'etereo contraltare alla Namai del regista lituano, entrambi sono luoghi fantasma alimentati dalla memoria, catacombe dal respiro fatiscente e suggestivo. Territori il cui silenzio è spezzato solamente dagli echi del calpestio dei passi sui calcinacci e da litanie conturbanti (gran merito alla voce del soprano Valentina Coladonato) che si diffondono tra i viottoli; le mura; le rovine. Le figure umane svaniscono sotto gli effetti della ridotta profondità di campo, assumono conformità indefinite al cospetto di un ambiente i cui detriti hanno inesorabilmente assimilato, oltre che alla vita, anche i ricordi di chi vi è ancora confinato. Mancanza-Inferno, si forma così come un poema sospeso tra il corporeo (i Dannati / il digitale) e l'incorporeo (l'Angelo / la pellicola)* che procede per atmosfere sensoriali atte ad esaltare le più minime percezioni esclusivamente dal vuoto ambientale/umano. Autentico cinema dell'assenza quindi, che fugge dalla gabbia delle convenzionalità (e la suggestiva sequenza d'apertura è evocativa) per diffondere universalmente gli echi del suo canto elegiaco:
"Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca"
"Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca"
"Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca"...
*Se attorno ai dannati ruota una telecamera digitale ad alta definizione, è invece una macchina da presa in 16mm a pedinare, contemplare e ricreare lo sguardo di Angélique Cavallari - Leonardo Persia (Rapporto Confidenziale)
Mancanza- Inferno, presentato in anteprima mondiale all'ultimo IFFR, è il primo passo verso un'annunciata trilogia (Mancanza-Purgatorio è già in lavorazione), che ha visto la luce grazie al supporto del crowfunding e associazioni Onlus quali l’Hatha Ciudad dell’Aquila, ma è, innanzitutto, un esperimento temerario (molte sono le scelte ardimentose: dalla mancanza di sceneggiatura all'utilizzo di differenti strumenti tecnici e linguistici - i formati di registrazione, la letteratura, l'improvvisazione). Un rinnovato affresco visionario nell'asfittico panorama del cinema italiano, in quanto è un film che volge con consapevolezza il suo sguardo all'Europa più art-house, perseguendo quel cinema diverso (e soprattutto libero) che in pochissimi, nel nostro paese, hanno finora avuto il coraggio di affrontare (seppur contraddistinti da stili differenti, Frammartino, Santini...). Una prospettiva importantissima e ammirevole, per svincolarsi dai soliti stereotipi narrativi e attoriali imposti da una cinematografia oramai avvizzita, spenta come lo sguardo di quei venti abitanti aquilani colpiti nel profondo dalla tragedia. E il film del regista abruzzese (ma oramai stabilito in Olanda), ha il pregio di non risolversi prosaicamente in un'indagine documentaristica al solo livello territoriale sulle conseguenze del sisma, ma di configurarsi invece più collettivamente, come un vero e proprio viaggio introspettivo nel vuoto interiore di ogni essere umano che ha subito una mancanza. Ogni pensiero espresso da uno dei sopravvissuti al dramma, ogni suo gesto, lo possiamo infatti cogliere nel nostro intimo, perchè in qualche modo legato a un'esperienza di vita, a una perdita, anche la più apparentemente insignificante. Sotto questa prospettiva, Stefano Odoardi si rivela esploratore poetico delle macerie umane; egli è il Sharunas Bartas nostrano, cattura con la stessa silenziosità gli stessi volti attoniti, la stessa umanità inamovibile colpita nel profondo da eventi drammatici (il ritorno all'indipendenza del popolo lituano dopo il dominio sovietico in The Corridor, ad esempio). La città de L'Aquila, avvolta nella riverberazione del suo desolante vuoto è l'etereo contraltare alla Namai del regista lituano, entrambi sono luoghi fantasma alimentati dalla memoria, catacombe dal respiro fatiscente e suggestivo. Territori il cui silenzio è spezzato solamente dagli echi del calpestio dei passi sui calcinacci e da litanie conturbanti (gran merito alla voce del soprano Valentina Coladonato) che si diffondono tra i viottoli; le mura; le rovine. Le figure umane svaniscono sotto gli effetti della ridotta profondità di campo, assumono conformità indefinite al cospetto di un ambiente i cui detriti hanno inesorabilmente assimilato, oltre che alla vita, anche i ricordi di chi vi è ancora confinato. Mancanza-Inferno, si forma così come un poema sospeso tra il corporeo (i Dannati / il digitale) e l'incorporeo (l'Angelo / la pellicola)* che procede per atmosfere sensoriali atte ad esaltare le più minime percezioni esclusivamente dal vuoto ambientale/umano. Autentico cinema dell'assenza quindi, che fugge dalla gabbia delle convenzionalità (e la suggestiva sequenza d'apertura è evocativa) per diffondere universalmente gli echi del suo canto elegiaco:
"Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca"
"Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca"
"Che il mio volto bagnato di lacrime brilli, e il pianto che non si vede fiorisca"...
*Se attorno ai dannati ruota una telecamera digitale ad alta definizione, è invece una macchina da presa in 16mm a pedinare, contemplare e ricreare lo sguardo di Angélique Cavallari - Leonardo Persia (Rapporto Confidenziale)
Hai fatto nascere in me la voglia di vedere questo nobile( almeno nei sociali intenti) film
RispondiEliminaE non solo. E' proprio elegante nelle atmosfere, nel lento incedere della Cavallari in un territorio che assume oniricità, nei versi di Rilke... Odoardi è in gamba, è ovvio che ora cresca la curiosità per i futuri capitoli della trilogia. Sul tubo, comunque ci sono alcuni suoi corti, penso sia doveroso darci un'occhiata.
EliminaGod blless
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