Marijan David Vajda
Svizzera, 1976
87 minuti
Liberamente ispirato alle reali e agghiaccianti gesta di Kuno Hoffmann, (il celebre "vampiro di Norimberga"), il poema funerario diretto da Marijan David Vajda è senza dubbio una delle gemme antesignane più ascose, nel già di per sé occulto panorama di film riguardanti, anche solo trasversalmente, il controverso tema della necrofilia.
Svizzera, 1976
87 minuti
Liberamente ispirato alle reali e agghiaccianti gesta di Kuno Hoffmann, (il celebre "vampiro di Norimberga"), il poema funerario diretto da Marijan David Vajda è senza dubbio una delle gemme antesignane più ascose, nel già di per sé occulto panorama di film riguardanti, anche solo trasversalmente, il controverso tema della necrofilia.
Siamo nei territori della exploitation, certo, ma sottraendosi per un attimo a tale ottica (e quindi sorvolando sugli inevitabili difetti, peculiari del genere), il film di Vajda si presenta sicuramente tra i migliori, e riesce abilmente ad eccedere; sia nel trasmettere una aura mortifera costante, aspersa di malinconico lirismo (nello specifico, durante le sequenze che vedono un alienato Werner Pochat introdursi nottetempo nella casa funeraria in cerca delle proprie "salme vitali"), che, e in modo particolare, nell'accurata delineazione di un personaggio il cui lacerante scompiglio interiore è tangibile attraverso ogni suo più infinitesimale gesto, sguardo, sfumatura. Un'introspezione talmente calibrata e viscerale che, probabilmente, nè il cerdàno Aftermath, né tanto meno i film di Buttgereit, sono successivamente riusciti ad eguagliare. Per i nostalgici del genere, prezioso cimelio assolutamente da riscoprire!
*Il lunare protagonista è un sordomuto dal passato violento (vittima di un padre alcolista e pervertito) e dal presente vissuto come ricordo-ossessione dei traumi trascorsi. Si circonda di bambole, mortificate e deorbitate per non poterlo giudicare, oggetto feticista al pari di veri bulbi oculari conservati nella formalina, rassicuranti perchè pari a sé in quanto privo della parola. Il protagonista, quindi, cattura con l'unico senso utilizzabile, gli occhi (quelli della memoria, ma anche dell'anima), frammenti di vite altrui per interiorizzarle ed integrarle nel proprio microcosmo. La vista dell'inchiostro vermiglio lo conduce all'emofilia per immediata associazione mentale, il suo rapporto e il contatto con gli altri non può che essere intravenoso; vuole assorbire quella "vita" che gli è preclusa, suggendo da una cannuccia biforcuta il passato delle proprie prede inermi, difatti già deposte in lignei scafandri; Mosquito rivendica considerazione firmando ingenuamente i luoghi incriminati, e necessita di specchiarsi, continuamente, per avere cognizione di se.
*Angelo Iocola - "La fossa dei serpenti" (nocturno dossier n°77)
*Angelo Iocola - "La fossa dei serpenti" (nocturno dossier n°77)
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