7.3.13

The House (Namai)

Sharunas Bartas
Lituania, Francia, 1997
118 minuti


Visione indispensabile per completare il percorso lungo il Corridoio dell'umanità rappresentato da Bartas.
Dalla palazzina di un quartiere degradato di periferia, ci si affaccia sul giardino di un'antica dimora fatiscente immersa nel bosco. Il cammino continua all'interno di ampi saloni semioscuri, illuminati solamente dalla debole luce del sole che filtra dalle finestre. E anche quì, riflessi, ritroviamo gli stessi volti assenti che scrutano al di fuori in cerca dei loro ricordi; gli echi del regime sovietico riaffiorano attraverso gli occhi della vecchiaia, i giochi sui prati innevati, attraverso quelli dell'infanzia...
Con The House il regista lituano firma l'apice della sua poetica, indubbiamente la sua opera più visionaria, certamente ostica e di non facile comprensione, ma estremamente affascinante per lo spettatore più avvezzo a lasciarsi trasportare in una dimensione di totale sospensione. Inscindibilmente legato al precedente The Corridor (1994), il film ne è il diretto prosieguo, una pellicola imperniata sulla rievocazione della memoria, un'esposizione di ricordi passati. La Casa è il contenitore della memoria, è il luogo che consuma il protagonista (Francesco Nascimento) fino all'annullamento della realtà, dove spettri del passato si materializzano affollando la sua mente. Esso si aggira catatonico all'interno dell'antica villa osservando quell'universo di anime ambulanti; anziani segnati dalla sofferenza, ragazzini che corrono, donne accovacciate dietro le pareti, musicisti, presunti scrittori (Leos Carax) che bruciano le loro opere, coltivatori, animali... Un improvvisato giardino rifiorisce, un cane allatta i suoi cuccioli: la Casa mantiene i ricordi vivi.


L'atmosfera è straniante e oscura, dominata da un silenzio che non è mai stato così disturbante. Ancora una volta la parola è assente, ad eccezion fatta per l'incipt e il finale; due minuti in tutto in cui la voce narrante del protagonista parla della madre, unico punto d'appiglio per una tentata chiarificazione degli eventi.

- Madre, spesso avrei voluto parlare con te di tutto, ma non l'ho mai fatto... Ogni volta che vengo quì ad ascoltarti non posso più parlare con te e rimango in      silenzio... Nel futuro io sono libero, libero perchè ancora non esiste. Il presente è così sfuggente, non sono certo che esista.
- Madre, il tempo è passato e sono distante da te. Ciò che è importante per me, è credere che queste cose non svaniranno... Per noi non sono altro che anime morte. Anime malate, sfinite, semplicemente questo. E soprattutto, quasi prive di speranza, ma non stiamo per sparire...


Certe influenze al surrealismo più recente (quello di Lech Majewski, per intenderci) si notano in alcune incisive sequenze (l'esuberante varietà di colombi decorati con piume e gioielli, il cane sulla tavola imbandita illuminato dal riflesso della luce esterna, l'orto che cresce in soffitta, un bambino crocifisso) che ricordano specialmente Pokoj Saren (1997), ma l'accostamento più evidente alla pellicola del regista polacco si può riscontrare nella rappresentazione quasi teatrale, dove i personaggi assumono la forma di veri e propri tablex vivant, rimanendo incastonati, impressi come tele dipinte (il risveglio di Nascimento a inizio film ne è un magnifico esempio) all'interno di quelle mura decadenti e nella memoria dello spettatore.
E come in La Cicatrice Interiore (1972) il tempo si dilata all'inverosimile e l'ambiente assorbe i corpi diventando protagonista assoluto.
Cupo e onirico!

4 commenti:

  1. Premettendo che mi manca "Koridorius" e che sono prossimo a vederlo, non posso esprimermi riguardo quest'opera visionaria, fatiscente eppure, in un certo qual modo, degradante, e al contempo splendida. Sapevo che questo film mi sarebbe piaciuto molto, ma, cribbio, non mi è piaciuto affatto: l'ho adorato e odiato, mi ha destabilizzato ed estasiato. Lo rivedo nel week-end, e magari ripasso per un commento meno schizofrenico, dopo la visione, necessaria a questo punto, di "Koridorius" e, visto che ci sono, "Seven invisible men". Pazzesco, mi piacerebbe scriverne, me lo imporrò. Complimenti per esserci riuscito. Qui, penso, siamo davvero ai vertici, e non solo del cinema di Bartas, ma del cinema in generale e in quanto tale. Grazie e di nuovo grazie per questo miracolo cinematografico.

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    1. Sono io che ringrazio te del sincero e prezioso commento, con cui tra l'altro contribuisci a riempire questo spazio, che finora era rimasto vuoto. Comprendo benissimo il tuo "turbamento" dopo un'opera d'arte del genere, perchè le stesse emozioni destabilizzanti le ho provate anch'io la prima volta. Ne ero rimasto terribilmente attratto, ma non sapevo se mi fosse piaciuto veramente. Solo con una seconda visione (che avevo inoltre recuperato in una qualità eccellente rispetto alla prima) e dopo aver visto "Koridorius" (fai benissimo, aiuterà a farti entrare in miglior sintonia con il mondo di Bartas), non ho avuto più alcun dubbio sulla grandezza di questo "miracolo cinematografico"!

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  3. Meraviglioso... le figure sembrano degli spettri intrappolati in un piano di realtà altro, costretti a ripetere in eterno i gesti della quotidianità. Mi ha fatto pensare alla magione del film "i vivi e i morti", ma non chiedetemi perché e alla riflessione su casa Marsten che Ben Mears, il protagonista del romanzo "Le notti di Salem" (capolavoro!) di King fa sulle case e cioè che sono una sorta di catalizzatori, di spugne, che assorbono le emozioni che vi si vivono all'interno, intrappolandole e riproponendole in eterno come una sorta di nastro che si ripete.

    "Nessun organismo vivente può restar sano a lungo in condizioni di assoluta realtà; si crede che perfino allodole e cavallette sognino. La Casa sulla Collina, dove non era sanità ma follia, sorgeva in alto, isolata, piena di tenebra; là era stata per ottant'anni, e prometteva di starvi per altri ottanta. All'interno, le sue mura si incrociavano regolarmente; i mattoni si sorreggevano a vicenda nel modo abituale; i pavimenti e i soffitti erano solidi, e le porte quasi sempre chiuse. Sul legno e sulla pietra della Casa sulla Collina posava un fermo silenzio, e qualunque cosa vagasse là dentro, vagava in solitudine." Shirley Jackson
    La maledizione della Casa sulla Collina

    Nella nostra più verde vallata
    Da anni buoni abitata,
    Un grandioso palazzo una volta,
    Un raro e radioso palazzo, ergeva la fronte.
    Nel regno del monarca Pensiero,
    Là s'innalzava!
    Mai spiegò serafino le ali
    Su dimora díuguale bellezza!
    Stendardi gialli, gloriosi, dorati,
    Fluttuavano ondeggiando sul tetto
    (Ma, tutto questo, nei tempi andati,
    Tanto tempo fa)
    E ogni brezza che scherzava leggera,
    In quei giorni felici,
    Lungo i bastioni impennacchiati e languidi,
    Un alato profumo portava con sÈ.
    Chi vagava per quella felice vallata,
    Poteva attraverso vetrate lucenti vedere
    Spiriti muoversi armoniosamente
    Al suono di un liuto assai bene accordato,
    Attorno a un trono dove, seduto
    Porfirogenito,
    Nel rango che alla sua gloria competeva
    Il sire del regno era veduto.
    E sfavillante di perle e rubini
    Era il portale del raro palazzo,
    Dove a ondate fluiva e fluiva,
    Senza fine tra i luccichii,
    Una compagnia d'echi,
    Col grato compito sol di cantare,
    Con voci d'insuperata bellezza,
    La saggezza e l'ingegno del re.
    Ma spiriti maligni con abiti a lutto
    L'inclita proprietà del monarca assalirono.
    (Ah piangiamo! Che più nessun'alba
    Sorgerà per lui, sventurato!)
    E attorno alla casa la gloria
    Che sfolgorava e fioriva
    Non è che un'oscura memoria
    Di un tempo ormai morto e sepolto.
    E chi, ora, passa per quella vallata,
    Per le rossastre vetrate intravede
    Immense forme muoversi irreali
    Al ritmo d'una dissonante melodia
    Mentre, lugubre rapido fiume,
    Per sempre dirompe dal cereo portale
    Un orrida folla che ride,
    Ma non sorride mai più.

    Edgar Allan Poe, Il palazzo stregato

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