Scott Barley
Uk, 2016
90 minuti
Uk, 2016
90 minuti
Incipt: dal buio abissale che dominerà incontrastato i novanta minuti di Sleep Has Her House, affiorano in lontananza le sagome affiancate di due cavalli (animale prediletto di Scott Barley, simbolo di un'eleganza che ne rispecchia l'operato), mentre il suggestivo rintocco di due note musicali al sintetizzatore, d'incisiva potenza, accompagnano un vento che sembra già inquietante presagio degli eventi catastrofici conclusivi, dove il rumore ambientale finirà per assumere netta predominanza.
Il sonoro costituisce comunque, già di fatto, l'altra metà fondamentale dell'immagine in un'opera crepuscolare come poche, concepita ai fini di restituire, a tutti gli effetti, un'esperienza sensoriale, portentosa. E durante questo profondo tuffo nell'oceano della percezione, non è difficile pensare come il superbo esordio al lungometraggio del talentuoso giovane originario di Cardiff, rappresenti in qualche modo un sunto concettuale del suo percorso antecedente, o perlomeno, dei film che hanno segnato gli ultimi passi a partire da Evenfall, Hunter, fino ad arrivare a quel Hinterlands che, alla luce di ora, appare come una sorta di "costola di Adamo" dell'opera qui descritta. Sleep Has Her House ne riflette quindi in maniera estensiva quel "terremoto" dagli interrogativi ontologici, sul quale l'artista ha costruito il suo più recente itinerario/viaggio. Avvalendosi oltremodo di una rinnovata ricerca estetica che scavalca il minimalismo già preesistente, e che a un'impercettibile visione del mondo e i suoi naturali elementi immersi nel manto notturno (perchè un altro interrogativo può essere: che forme assumono ai nostri occhi quei luoghi che, comunemente, di notte non esploriamo? Quali sensazioni possono scaturire alla semplice vista di un fiore o di un lago, se osservati sotto luce diversa?), affianca la magnificenza di uno scenario pittorico in costante dissolvenza (che dirompe già dalla lunga sequenza della cascata), tendente all'astrattismo e all'elevazione cosmologica, nell'istante in cui le nubi del cielo si aprono generando una frattura dell'immagine e del concetto scenico raffigurato finora; un fulgido varco che si attesta come prima ed effettiva manifestazione di luce, irradiante quell'universo di tenebre. Funesto preludio di calamità naturali e forze superiori pronte ad incombere? Probabile, poichè al tramontare di quella luce, un'oscurità ancora più densa e limacciosa reclama la sua presenza, tornando a fagocitare quella Natura che ora vede le sue forme di vita riverse esanimi ai piedi di un albero. Morte che si riflette in illusorie figure di animali percepite dalla nostra mente, che si disegnano sulla superficie di un lago al chiaro di luna. Mentre lo sguardo ravvicinato di un cavallo in corsa ci scuote (tramite l'unico movimento a camera libera) dalla fissità di quell'immaginario vissuto, quasi per avvertirci dell'imminente e devastatrice furia climatica che da lì a poco troverà esecuzione, agitando alberi e appiccando fuochi; fino a invadere tutto per renderci scienti della nostra fragile esistenza, dell'impotenza dell'essere umano di fronte alle indomabili leggi del cosmo. E tra i rapidi lampeggiamenti di questo cataclisma sensoriale, riusciamo nuovamente a scorgere i due animali apparsi all'inizio (forse, gli stessi cavalli sculti nella foschia dell'indimenticabile The Ethereal Melancholy of Seeing Horses in the Cold), che se ne stanno ancora lì, isolati nel mezzo "dell'apocalisse", uno affianco all'altro in una sorta di recirpoca protezione.
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