Svezia, 1961
86 minuti
"Ho avuto paura. La porta si è dischiusa, ma il Dio che è entrato era solo un ragno. Si è avvicinato a me e io l'ho visto in faccia: un viso ripugnante e gelido. Si è lanciato su di me, voleva possedermi ma io mi sono difesa. Vedevo continuamente i suoi occhi così freddi e calmi. Non è riuscito a penetrare in me, così ha strisciato sul mio petto, sul mio viso, e se ne è andato su per la parete. Ho visto Dio."
- Karin (Harriet Andersson)
Con Såsom i en Spegel, primo film della nota trilogia sul "silenzio di Dio" o più comunemente chiamata, "trilogia religiosa", Ingmar Bergman inaugura il suo cinema da camera, ma al tempo stesso, anticamera della follia che segnerà il suo periodo successivo (periodo sessantottino, se vogliamo) rappresentato in primis da due opere giganti quali, Persona (1966) e L'Ora del Lupo (1968). Risultano quindi oltremodo giustificate le parole del regista, quando dichiarava di aver creato un malinteso per cui, Come in uno Specchio, è in realtà un film slegato dalla suddetta trilogia, ma più opportunatamente collocabile come ultimo segmento della filmografia che la precede in quanto, la tormentata ricerca di Dio, l'eterno dubbio sulla fede (temi che comunque hanno assorbito tutta l'esistenza/filmografia di Bergman), risultano sicuramente più pregnanti dai successivi Luci d'inverno e Il Silenzio (1963), considerato l'apice di questa parentesi e di cui, argomentazioni più adeguate sotto il profilo filosofico-esistenziale, potete trovare qui e cliccando sui titoli appena citati. Chi scrive, al momento preferisce enfatizzare l'aspetto psicologico, decisamente ricco di riflessioni personali, concentrandosi quindi su Karin; sulla sua mente frammentata, oscillante, in perenne bilico sul labile confine tra realtà ed allucinazione, proprio come il film stesso, una creatura scissa da un percorso che si è appena concluso (cui Bergman ne vide, a torto, una sconfitta morale) e un altro illuminato di nuova luce. E Quale primo miglior segnale, se non quella luce che si focalizza con precisione sull'occhio angosciato di Karin, per poter spalancare le porte alla follia?
Anche se una delle sequenze più importanti, per qualunque tipologia di accostamento, rimane quella in cui Karin legge il diario del padre scrittore, David (personaggio che forse meglio rispecchia il pensiero bergmaniano, il suo travagliato rapporto con la fede), scoprendo così di essere per lui un mero oggetto di ricerca per il suo nuovo romanzo: "Con spavento constato la mia curiosità, l’impulso di prendere nota dei sintomi, di registrare giorno del graduale disfacimento di mia figlia, di usufruirne e sfruttarla". Mi piace pensare, che la prima incursione di Karin in quella soffitta dalle pareti di carta, soglia metafisica dove le "voci" si fanno sentire (e dove avverrà la "rivelazione"), costituisca un trait d'union con l'esplosione psicotica del pre-finale, dato che le movenze allucinate e quella posa a terra che Karin assume, possono già ricordare vagamente la forma di un ragno. La lettura del diario, è certamente la goccia che fà traboccare il vaso, in quanto, segna in Karin l'inizio della totale dislocazione dalla realtà, ma l'avvisaglia simbolica è chiusa in quella soffitta, su quella parete, su quella fessura nella parete dove Bergman stringe inquietantemente il campo. Una crepa che rappresenta chiaramente la frattura della psiche (come in Repulsion di Roman Polanski), un varco abbastanza ampio per far sì che la realtà affondi di colpo con i propri rimorsi di coscienza (il vascello arenato sulla spiaggia che diventa alcova incestuosa). Ed ecco allora, che Dio si rivela a noi attraverso la follia, assumendo così le fattezze aracnèe di un essere gelido e ripugnante che, non riuscendo a penetrarci, striscia sopra il nostro corpo per poi svanire nuovamente oltre quel muro. La follia, è dunque la strada per raggiungere Dio, oppure è Dio, che si serve della follia per mostrarci il suo vero volto? Dilemmi zulawskiani, si potrebbe dire. Ed infatti, assistendo a Come in uno Specchio, torna prepotentemente alla memoria Possession (1981) e quella frase scritta da Isabelle Adjani, che Sam Neil legge sul retro di una cartolina fedifraga: "Ho visto il vero volto di Dio! Sei tu, Henrich". Ma se la follia, in Possession si materializzava nei sotteranei di una metropolitana, e sfociava in un finale pessimistico in cui, forse, "Dio ha ingannato il mondo", la follia nel film di Bergman, si manifesta attraverso l'agghiacciante resoconto di Karin; parole che escono dalla sua bocca con una potenza impressionante, una potenza che sconquassa interiormente e che alla fine, non può che lasciar spazio al "silenzio". Un'assenza, che nonostante "la certezza (ri)conquistata" del padre (Non so se l'amore dimostra l'esistenza di Dio o se l'amore è Dio stesso...questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione), comunque permarrà, altanelante, proprio come questo film, in tutta la carriera del maestro.
Anche se una delle sequenze più importanti, per qualunque tipologia di accostamento, rimane quella in cui Karin legge il diario del padre scrittore, David (personaggio che forse meglio rispecchia il pensiero bergmaniano, il suo travagliato rapporto con la fede), scoprendo così di essere per lui un mero oggetto di ricerca per il suo nuovo romanzo: "Con spavento constato la mia curiosità, l’impulso di prendere nota dei sintomi, di registrare giorno del graduale disfacimento di mia figlia, di usufruirne e sfruttarla". Mi piace pensare, che la prima incursione di Karin in quella soffitta dalle pareti di carta, soglia metafisica dove le "voci" si fanno sentire (e dove avverrà la "rivelazione"), costituisca un trait d'union con l'esplosione psicotica del pre-finale, dato che le movenze allucinate e quella posa a terra che Karin assume, possono già ricordare vagamente la forma di un ragno. La lettura del diario, è certamente la goccia che fà traboccare il vaso, in quanto, segna in Karin l'inizio della totale dislocazione dalla realtà, ma l'avvisaglia simbolica è chiusa in quella soffitta, su quella parete, su quella fessura nella parete dove Bergman stringe inquietantemente il campo. Una crepa che rappresenta chiaramente la frattura della psiche (come in Repulsion di Roman Polanski), un varco abbastanza ampio per far sì che la realtà affondi di colpo con i propri rimorsi di coscienza (il vascello arenato sulla spiaggia che diventa alcova incestuosa). Ed ecco allora, che Dio si rivela a noi attraverso la follia, assumendo così le fattezze aracnèe di un essere gelido e ripugnante che, non riuscendo a penetrarci, striscia sopra il nostro corpo per poi svanire nuovamente oltre quel muro. La follia, è dunque la strada per raggiungere Dio, oppure è Dio, che si serve della follia per mostrarci il suo vero volto? Dilemmi zulawskiani, si potrebbe dire. Ed infatti, assistendo a Come in uno Specchio, torna prepotentemente alla memoria Possession (1981) e quella frase scritta da Isabelle Adjani, che Sam Neil legge sul retro di una cartolina fedifraga: "Ho visto il vero volto di Dio! Sei tu, Henrich". Ma se la follia, in Possession si materializzava nei sotteranei di una metropolitana, e sfociava in un finale pessimistico in cui, forse, "Dio ha ingannato il mondo", la follia nel film di Bergman, si manifesta attraverso l'agghiacciante resoconto di Karin; parole che escono dalla sua bocca con una potenza impressionante, una potenza che sconquassa interiormente e che alla fine, non può che lasciar spazio al "silenzio". Un'assenza, che nonostante "la certezza (ri)conquistata" del padre (Non so se l'amore dimostra l'esistenza di Dio o se l'amore è Dio stesso...questo pensiero è il solo conforto alla mia miseria e alla mia disperazione), comunque permarrà, altanelante, proprio come questo film, in tutta la carriera del maestro.
Grande recensione per un film che personalmente considero magnifico. Anche se leggendo le "confessioni" di Bergman, nel libro "Immagini" ho scoperto con stupore che è uno dei film che lo ha lasciato a posteriori meno soddisfatto. Lo considera immaturo, infantile...mah, per me resta uno dei migliori della sua produzione, (non solo stilisticamente ineccepibile, ma anche immensamente bello a livello di contenuti). Un grande film, di quelli che andrebbero senz'altro riscoperti e riassaporati.
RispondiEliminaGrazie Vittorio, la penso esattamente come te. Infatti ho scritto che "a torto" Bergman non ne fosse soddisfatto. Pure io lo considero uno dei suoi vertici; un film che personalmente, per i contenuti sostanzialmente psicologici, si accosterebbe sicuramente meglio ai titoli del periodo successivo.
EliminaSarà perché ho risolto da tempo i miei dubbi sulla fede, sarà perché la tematica mi annoia un po', della trilogia religiosa di Bergman ho visto solo "Luci d'inverno". Un film magnifico, come negarlo?, ma decisamente lontano dalle mie corde.
RispondiEliminaLa tua magnifica recensione ha cominciato a scalfire le mie idee preconcette (anche il ragno ha fatto la sua parte!)
Eh, ma Luci d'inverno è una mazzata bombus! Innegabile, come giustamente scrivi, il suo valore, però della trilogia è quello dall'accostamento più difficile, è pesantemente verboso e ti dirò che io non sono riuscito a vederlo tutto, cosa che doverosamente, prima o poi dovrò fare. Questo, come "Il Silenzio", potresti invece digerirlo sicuramente meglio... Mi fa piacere che il ragno abbia cominciato a pungere ;)
EliminaMammamia che recensione. Come al solito, il tuo occhio fa paura: Bergman & Zulwaski finalmente conciliati, magnifico! E magnifica anche la recensione, introspettiva come la mia non era riuscita a essere. Il dio anansico di Bergman, poi, è suggestivo quanto la luce deistica che abbaglia il volto di Giovanna d'Arco nel capolavoro di Dreyer. Su una cosa, però, non mi ritrovo: il dilemma zulawskiano è ben posto e condivisibile, ma come lo concili con lo spiegone finale? Da una parte follia/Dio, dall'altra amore/Dio...
RispondiEliminaIn effetti non mi ci sono soffermato, perchè ho cercato di concentrarmi sull'elemento Karin, che m'interessava maggiormente. Posso dirti comunque che con il finale di questa recensione, se n'è andato anche mezzo emisfero cerebrale credimi, proprio per il quesito che mi poni! D'altronde il confronto con Zulawski mi premeva assai e, di conseguenza, non sono più riuscito a completare il cerchio, se così possiamo dire. Per questo, ho voluto(dovuto) concludere il post con l'appiglio del film altanelante, come la fede di Bergman, facendo solo accenno al connubio amore/Dio che ritrova David...
EliminaVedi allora, che alla fine, sulla trilogia bergmaniana valgono senza dubbio molto di più le tue analisi? Troppo gentile Yorick, grazie!
Ma la mia disamia era fondamentalmente veicolata da un problema di fondo, cioè dimostrare - come giustamente hai notato tu ponendo il binomio Dio/follia - che Bergman non è assolutamente religioso quando parla di religione: la sua è una perdita di fede per ritrovarsi uomo; la domanda su Dio e la follia è fondamentale, soprattutto perché Karin vede Dio, mentre il padre - razionale - non vede Dio e ha con Lui un rapporto sfasato e viziato: secondo me, quando Bergman gli fa dire che Dio è amore sta facendo gli sberleffi a tutta una parrocchia che ha voluto che Dio fosse amore, mentre invece è qualcosa di puramente trascendente (Karin è trascendente grazie alla sua follia), e prova ne è il fatto che il padre non vede Dio, non ha rapporti con Dio. Almeno secondo me...
EliminaProbabilissimo, anzi, la tua spiegazione non fa una piega e la trovo condivisibile. Dunque in realtà ne vedresti un finale (sempre se di finale si può parlare in un film così) comunque pessimistico? Se Bergman però riversa su David la sua perdita di fede facendole pronunciare quelle frasi che, di conseguenza suonano come uno beffa e quindi come una visione ingannevole di Dio, sarebbe giusto soffermarci un attimo anche sulla figura di Minus, contraddistinta da una fede ancora acerba, ma che con la sua frase finale (forse la frase più importante, se inquadriamo il film sotto quest'ottica) sembrerebbe concretizzarsi. Quel suo: "Papà ha parlato con me", non potrebbe essere interpretato come "Dio ha parlato con me"? Correggimi se sbaglio... Sarebbe a questo punto interessante rivedere anche i film successivi alla trilogia, quelli che ho citato, per capire quanto anche lì, influisca la religione/la fede-non-fede di Bergman: per esempio Sussurri e Grida l'hai visto?
Elimina"Sussurri e grida", l'ho visto, ma solo un paio di volte, quindi non è impresso nella memoria come questa trilogia. Lì, però, si vede più psicologia che teologia, anche se l'esistenzialismo di Bergman, come giustamente sottolinei tu parlando della figura di Karin, spesso è un binario che accomuna i due elementi. Comunque, sì, potrebbe essere un'interpretazione: solo che, così risultando, non ne capirei il senso, anzi mi sembrerebbe un'appendice, quel finale, del tutto accessoria. "Ora noi vediamo come in uno specchio, in maniera confusa": chi, nel film, vede come in uno specchio? Secondo me Minus e il padre, soprattutto il padre. Mentre Karin, appunto, vede in maniera nitida Dio, tant'è che ha una crisi. D'altro canto, se si parla di psicologia, si nota subito una grande mancanza nel film: la madre. Il che apre nuovi problemi, e forse radicalizza la prospettiva psicanalitica in vece di quella teologica. D'altro canto, si potrebbe ribaltare il film: il film non parla di Karin, parla del padre. Il padre che esce dal peccato e ritrova Dio. In questo senso, quel "Papà ha parlato con me" significherebbe che la conversione è ormai avvenuta, mandando all'aria quanto detto prima: così, infatti, è Karin che vede come in uno specchio (vede il ragno, non vede Dio), e lo specchio è quello della follia. In un cinema da camera, però, io terrei d'occhio tutti gli elementi, e l'elemento fondamentale è la stanza in cui si risolve tutto: Karin schizza dopo aver visto fuori dalla finestra (il cui vetro richiama comunque la specularità dello specchio), quella stessa finestra davanti la quale avviene il colloquio da te citato (Dio/amore): ora, quella finestra è chiusa, quasi a frustrare da una parte la comunicabilità del colloquio finale, dall'altra a segnare il distacco tra Karin (fuori) e il padre (dentro). Insomma, l'unica certezza è che sicuramente uno dei due personaggi veda come in uno specchio. Secondo me, lo specchio è Karin: e il padre, in Karin, vede in maniera confusa... ma non ci metterei la mano sul fuoco.
EliminaBravo, hai centrato una cosa che non mi sarebbe mai venuta in mente: la mancanza della madre, è vero. Anche la lettura del film ribaltato, in effetti risolverebbe molti quesiti... Vorrei rivedere "Il Silenzio", sarebbe la terza volta, ma dopo questa discussione urge un'osservazione sotto un punto di vista che possa in qualche modo connettersi al finale di questo, dato che al momento, il ricordo che ne serbo anche lì, è di un film prevalentemente a carattere psicologico.
EliminaSì, "Il silenzio" è psicologico anche per me, anzi direi addirittura psicanalitico, visto la grande presenza del simbolico (i nani ma non solo)...
EliminaPurtroppo ne ho solo un ricordo molto nebuloso dei tempi dell'esame di cinema all'università (monografico su Bergman: ho imparato ad apprezzarlo ma spararsi più di 10 film del suddetto regista senza soluzione di continuità non è stato uno scherzo...) ma la tua recensione è da 110 e lode! ^__*
RispondiEliminaTi ringrazio per i complimenti, se troppo gentile ;) Mammamia, complimenti a te invece; più di 10 Bergman di fila non è uno scherzo? E' una mattonata micidiale, bravissima! Personalmente, per quanto apprezzi il suo cinema, penso che non c'è la farei...
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