Shireen Seno
Filippine, 2018
90 minuti
Yael è una bambina di otto anni che vive sola con la madre, il cui lavoro la porta ad essere assente da casa per gran parte della giornata. Timida e introversa, la bambina preferisce scrivere esercizi di matematica e ascoltare da uno stereo-mangiacassette le registrazioni di suo padre, da molti anni ormai lontano da casa per lavorare a Riyadh.
Filippine, 2018
90 minuti
Yael è una bambina di otto anni che vive sola con la madre, il cui lavoro la porta ad essere assente da casa per gran parte della giornata. Timida e introversa, la bambina preferisce scrivere esercizi di matematica e ascoltare da uno stereo-mangiacassette le registrazioni di suo padre, da molti anni ormai lontano da casa per lavorare a Riyadh.
Quando Yael vede in tv lo slogan di una penna miracolosa in grado di offrire "una vita meravigliosa", decide di spendere tutti i suoi risparmi per acquistarla. Ma nel frattempo, un tifone sta incombendo sulle Filippine...
Shireen Seno, regista già apprezzata in queste pagine per il precedente Big Boy (2012), punta ancora una volta, con spiccata sensibilità, l'occhio della cinepresa sulla figura dell'infanzia, invitandoci ad osservare la realtà/mondo circostante da tale prospettiva; attraverso uno sguardo incantato, vulnerabile, confuso quale può essere, appunto, quello di un bambino. Nervous Translation (presentato in questi giorni all'ultimo IFFR), si costruisce quindi attorno al quotidiano vivere di una ragazzina, il cui apparente rifugio nella solitudine, nasconde invero un profondo richiamo d'attenzione verso il mondo adulto e i correlati eventi (siamo nel 1987, epoca ancora scossa dai tumulti insurrezionali che hanno appena portato alla caduta di Marcos) che dal basso della sua innocenza fatica ancora a comprendere. Nonostante ciò, la regista opta per una rappresentazione comunque sia fidente, anche nei momenti più drammatici come quello dell'inondazione finale. Porgendo oltremodo specifica attenzione a quanto, gli anni Ottanta, abbiano comunque rappresentato una crescita fondamentale. E lo fa, mediante la primaria interazione con quell'apparato tecnologico (lo stereo - le musicassette - la televisione - il videoregistratore) che allo sguardo di ora può far sorridere, ma che in sostanza, per la sua funzione, non differisce in alcun modo da quello attuale; permettendo infatti a Yael di "connettersi" con il ricordo del padre lontano, semplicemente ascoltando la sua voce registrata, o di rincorrere il sogno di "una vita meravigliosa", ammaliata dalle immagini (nostalgicamente analogiche) di quella penna che ruota al centro dello schermo tv. Come nel film precedente, quindi, c'è ancora un ricorso alle potenzialità scaturite dal mezzo-ricordo: immagini trasmesse, voci registrate, volti fotografati... e istantenee che si perdono, come il tempo che decorre. Sono i mezzi che concedono a Yael di far percepire la sua quieta "voce", oltre i confini dell'infanzia; trasferirla all'attenzione dell'adulto in maniera quasi "epidermica". A tal proposito azzardo un pensiero, probabilmente errato, ma stuzzica l'idea che le fasciature sui gomiti della piccola simboleggino una sorta di ostacolo all'intimo desiderio di crescita (al contrario del Julio protagonista in Big Boy, dove la crescita era invece precocemente esercitata mediante un singolare stiramento degli arti) e che, oltremodo, i segni dermatici presenti sulle sue braccia, possano interpretarsi allegoricamente con quel silenzioso richiamo all'ascolto, trasmettendosi direttamente sulla pelle dell'adulto (ripenso ad una breve inquadratura dove la madre, rilassata tra le braccia della figlia sul divano, per un rapido istante inizia a grattarsi il collo).
"Osservare dal basso dell'innocenza", si era detto. E la scala delle proporzioni (adulto/bambino - mondo reale/mondo giocattolo) si presenta a conti fatti come uno degli aspetti più invitanti sui quali ripiegare, anche dalla prospettiva scenica. Ovvero, la miniaturizzazione di quell'ambiente/mondo; la sua trasfigurazione in un mondo-plastico a scala ridotta. Dapprima, svelatoci solo in modo frammentario all'interno delle mura domestiche, con occhio incline alla minuziosa ricerca del dettaglio/oggetto (il fornello giocattolo sul quale Yael si diletta a "cucinare"), per poi ampliare la propria veduta verso l'esterno, nel culminare del film, espandendosi come l'acqua alluvionale che gradualmente invade l'intimità della casa trascinando con sè oggetti e ricordi, e facendosi metafora di un passaggio obbligato: l'infanzia che scorre, e che ora, consentirà a Yael di crescere, e di osservare il mondo con gli occhi di un adulto.
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