16.2.17

Il lirismo vampirico di Jean Rollin #3: La morte vivante (The Living Dead Girl)

Jean Rollin
Francia, 1982
89 minuti

Se ne fece menzione nella seconda parte di questo "speciale" sul cinema di Jean Rollin, e a distanza di tempo era inevitabile, quanto necessario, un ritorno con il film che ancora ad oggi, dopo una recentissima revisione, chi scrive continua a considerare come la compiuta summa della sua poetica.

La morte vivante, infatti, riassume eccellentemente e con un maggior equilibrio narrativo rispetto alle opere precedenti, tutte le tematiche ed ossessioni fantastiche che hanno caratterizzato la singolare cinematografia del compianto autore; sempre così sconcertantemente in bilico tra il cinema arty e quello più basso d'exploitation ma al contempo, pregna di una vitalità surrealista tale da elevarlo, distinguendolo immediatamente dagli svariati prodotti sulla stessa falsariga che invadevano il mercato in quegli anni. Allo stesso modo delle eterne metafore esistenziali sospese in quel limbo tra la vita e la morte, tra il bene e il male, dove giacevano le sensuali e tormentate creature da lui immaginate, come nel caso qui di Catherine Valmont (Françoise Blanchard): giovane dama d'altri tempi che ritorna alla "vita" a causa dell'infiltrazione sotterranea di alcuni rifiuti tossici, depositati illegalmente da tre uomini nella cripta di famiglia. L'abusato incipt (che solo apparentemente può cavalcare l'onda del filone "zombesco" in voga a quei tempi), fortunatamente è solo un pretesto all'innesco, invero, di tutti quei meccanismi più cari a Rollin, sia stilistici che simbolici*, essenziali ancora una volta alla costruzione del suo personale e fascinoso mondo, effuso di quel macabro romanticismo che culmina qui con la massima espressione. D'altronde, dopo la seppur ottima prova con Les raisins de la mort (1978) e un passo falso, invece, qual'è stato Le lac des morts vivants (1981) - sceneggiato però da Jess Franco - non c'era effettivamente necessità di un ritorno così esplicito a tali tematiche, di natura diciamo più "pandemica", in qualmodo così distanti sia dalle intenzioni che dal reale spirito del regista. Intelligentemente, quindi, Rollin opta per un ripristino della sua componente fondante, il vampirismo, solamente adattandolo in un contesto più incline alle tendenze "cannibaliche" del periodo, per le quali ne consegue un erotismo più velato e, inaspettatamente, una visceralità più marcata. Ne esce così una rilettura originale che fa di Catherine sicuramente una delle figure più interessanti e, fondamentalmente "umane", dell'intero universo rolliniano dove si, lei è, di fatto, un cadavere che riacquista una propria funzione motoria e vitale, ma è una vitalità che trascende la mera corporeità per penetrare nell'anima ed empire nuovamente il cuore di sentimenti; la mente di pensieri; gli occhi di lacrime; la voce di parole. Al solo sguardo di una fotografia, al solo suono di un carillon; Catherine vive, a tutti gli effetti. Tanto da conseguirne addirittura un capovolgimento della morale e del ruolo vittima/carnefice, dall'istante in cui subentra la lucida presa di coscienza sulla sua condizione di "non-morta": emblematici ad esempio, restano i momenti della liberazione di una delle vittime a lei designate, il rifiuto di abbeverarsi del sangue di un piccione morto, e il desiderio di "tornare alla morte", immergendosi nelle acque di un lago.

E i segnali sono immediatamente percepibili, già disseminati tra le stanze dell'antica villa di famiglia alla quale Catherine fa ritorno, e presenti nei vecchi oggetti ritrovati (il cavallo a dondolo, il pianoforte, il succitato carillon e le fotografie) che spalancano d'impatto le porte della memoria sullo struggente ricordo dell'amata amica d'infanzia Hélène (Marina Pierro, musa di borowczykiana memoria) e dell'eterna promessa/unione d'amore scambiatasi anni prima attraverso un patto di sangue. Indizi simbolici di una frattura intenzionale che Rollin attua proprio per rafforzare la sanguigna intensità di un legame che finisce per generare un conflitto tra tra impulso e ragione, nella rappresentazione dei ruoli. Da un lato, Catherine desidera la morte, quella concreta, per amore della vita; è lei infatti, che supplica l'amica di ucciderla per liberarla dallo strazio di quella condizione innaturale per lei divenuta insostenibile e porre così termine alla scia di sangue che la circonda. Ne emerge quindi il tentativo della ragione a prevalere sull'istinto che la porta a sostentarsi del sangue di altre vite per la sua "sopravvivenza". Al contrario, Hélène desidera la vita di Catherine, non accetta la sua condizione (addirittura pensa non sia mai morta) e chiusa nella sua (ir)razionalità finisce paradossalmente per rappresentare quasi il vero "villan" della situazione, arrivando a servirsi della morte per amore dell'amica, macchiandosi in prima persona dei delitti** .
In entrambi i casi, c'è un amore fortissimo alla radice, che nello stesso sangue dal quale è originato finirà per risolversi. Sarà Hélène, infine, a immolarsi offrendo il suo corpo all'amata durante una classica "notte di tregenda", con tutto il suo immancabile scatenarsi di tuoni, fulmini, simbolismi radicati alle origini della figura vampirica e sangue a fiotti. E poi il nome di quell'eterno amore che riecheggia nell'ambiente, urlato per l'ultima volta a squarciagola mentre la camera retrocede allargando lo scenario della tragedia fino all'insinuarsi di un sonoro penetrante, immutabile come oramai può esserlo il destino di Catherine. Proprio nella sua perfetta amalgama di elementi intrisi di una lirica funerea, dal punto di vista scenico ed emozionale l'epilogo è qualcosa d'inobliabile, che perdurerà a lungo nella memoria dell'osservatore (il primo morso - il castello ripreso dal basso - i rivoli di sangue che scorrono giù per la scalinata - il pipistrello), presentandosi oltretutto come il più elevato per tasso ematico e tra i più disturbanti dell'intera filmografia rolliniana, dove la soffermazione temporale sull'effetto gore (magistralmente realizzato da Benoit Lestang) raggiunge qui livelli, mai finora così esplicitamente espressi nel suo cinema.                

* Il minimalismo di fondo e la dilatazione dei tempi - l'originalità degli scenari, tra il gotico e il rurale - l'imperitura solitudine che avvela i personaggi - il vampirismo, principalmente saffico, che origina da legami indissolubili.

** Succede alla coppia di americani spinta a curiosare sul mistero che avvolge Catherine, dopo esservi risalita da una fotografia scattata casualmente mentre la ragazza vagava nel parco della villa.



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