15.10.15

Gia panta (Forever)

Margarita Manda
Grecia, 2015
86 minuti

Costas ed Anna: lui è un macchinista di treni; lei un'addetta alla biglietteria del traghetto portuale. Due anime in fuga dalla solitudine che ne accompagna l'odierno transitare, plumbeo come il cielo che ognuno di loro, ancora inconsapevole delle reciproche esistenze, contempla assorto dal proprio personale spazio (la fermata di un autobus; il terrazzo di un'appartamento).

Nonostante ciò, due esistenze alla ricerca di un possibile contatto, inseguito per tutto l'arco del film, speranzose nella rinascita di quel sentimento chiamato amore e che il mondo, in quel preciso istante, necessita di ritrovare...

Il suggestivo scenario ritratto da Margarita Manda è difatti una Atene semideserta, dai caseggiati fatiscenti, dalla cromìa desatura; ferrigna come le rotaie che ne solcano quel territorio arterioso fino a condurre al porto dove, l'unico suono udibile, è lo stridìo dei gabbiani. Dal vuoto di una stazione ferroviaria, al perpetuo saliscendi di una scala mobile; interconnessioni di vite che lentamente paiono riemergere da un tempo remoto che ne aveva annientato i sentimenti e nel quale, è probabile sia già avvenuto un qualcosa di catastrofico, poichè la new-wave ellenica eretta da Lanthimos e soci, con le sue perturbanti fobie/follie sui possibili sfaceli socio-morali, pare oramai distante, se non addirittura estinta. Di fatto, l'apparente processo di desertificazione ed il silenzio incombente, che permeano Gia panta, sono in realtà segnali di un risorgimento in atto, di un possibile rifiorire esistenziale (la presenza d'acqua in una pozzanghera che Costas - in una scena di tarkovskijana memoria - sembra voler constatare, quasi come fosse un rituale odierno) nonchè, di una reinventiva stilistica che la regista (ri)modella con rigore bressoniano (Bresson, è da lei stessa menzionato come uno dei suoi maestri spirituali), intenzionata così a tornare all'essenza della forma cinematografica: "a un'immagine non costruita sulla storia, ma piuttosto alla ricerca di una storia all'interno dell'immagine". E questo riverberio filmico, in qualmodo classico, emerge nella ricercata composizione di determinate inquadrature che, attraverso l'immobilità del piano sequenza fisso, imprimono i volti di Costas ed Anna come ricalchi di un'iconografia evoca di un certo passato; che siano essi riflessi con i propri pensieri sul finestrino di un treno, o carichi di aspettative durante l'attesa notturna in quella stazione che, improvvisamente (e finalmente), riacquista nitore illuminandosi non solo, di quei sentimenti che sembravano perduti, ma della vita stessa.

*Questa notte di treni, di popolazioni che migrano, di sogni corporali, di violate respirazioni nella rena mobile del viaggio...
Un treno sonnambulo che fugge, in direzione opposta, irreversibile, di quelli che passano ormai persi... cercatori di un segno nella spiga moltitudine di volti.
Amica, non dimenticarmi; non dimenticarmi, amico; non ti perdere, attendimi.
Come la maschera di una danza, vengo da lontano ad occupare la mia faccia; dietro e in silenzio, ai miei balconi lacrimevoli, al sapore della mia bocca, all’odore delle cose che attendevano.
Sono senza terra ferma; sto uscendo, dove voglio, da queste ultime lente ore di viaggio che termina; ombra lunghissima, stagno di sibili, di ruote che ripetono la loro parola distinta ad ognuno; stazioni mendiche, come date illuminate appena, dove duole ciò che si apprende addormentandosi.
Non dimenticarmi, attendimi.
Io, quello delle lettere senza destinazione, quello delle parole non credute, quello che semina nell’oscuro, te lo chiedo.
*Estratti da Fuego de pobres, 1961, di Rubén Bonifaz Nuño (traduzione di Tomaso Pieragnolo e Rosa Gallitelli)

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