16.8.15

68° Festival del Film Locarno: resoconti personali

Per chi non se la sentisse di leggere fino in fondo (cosa del tutto giustificabile) può saltare direttamente in appendice al post, per consultare l'elenco dei film in crescente ordine di preferenza.

Di ritorno anche quest'anno, per il terzo consecutivo, dal consueto viaggio locarnese che ha visto il sottoscritto immerso nelle proiezioni festivaliere per quattro giorni, vediamo di stendere alcune impressioni al volo su quanto riuscito a visionare durante questa sessantottesima edizione che, ad ogni anno, sembra purtroppo risentire gradualmente degli influssi commerciali dettati dalla popolarità dei festival maggiori.

Fortunatamente, però, in mezzo a un calderone di pellicole deludenti e poco (o per niente) convincenti, ogni giornata è comunque riuscita a concedere lo spazio per almeno un ottimo film, nonchè, due opere immense e dall'impatto immediato, sulle quali un giudizio favorevole si è riversato fin dal primo istante in modo irrevocabile. Per il resto, questi due giorni che separano il ritorno dal festival sono decisamente serviti ad introiettare al meglio tutti i lavori fruiti, sia riconfermandone le impressioni iniziali per certi, che rivalutandone (seppur di poco) l'importanza preferenziale per altri. Ma procedendo con ordine, direi di togliere subito il dente doglioso facendo un bel fascio rovente di quei film distanti anni luce dallo stile di cinema che il sottoscritto ama e che il blog intende rappresentare, e che in questa personale graduatoria si riservano irreparabilmente le ultime, scomode poltrone; cose assolutamente inguardabili come il francese Deux Rèmi, deux (languido adattamento di un romanzo di Dostoevskij sul tema del doppio) tra i lungometraggi e, in ordine di fruizione: L'invisible (documentario dall'evidente impostazione televisiva composto da estratti di repertorio sul cinema di Choux, Cocteau e Godard; per carità, stimabile come progetto ma evitabilissimo e totalmente ininfluente, a modesto parere, in un contesto festivaliero), Ein Ort wie dieser (altro documentario, esageratamente videoclippato e incentrato sulle rivolte all'interno del Sedel, a Lucerna), Maria do Mar (commedia portoghese a sfondo sentimentale, talmente smancerosa da infliggerti il vero colpo di grazia nell'istante in cui, sull'uscio di una casa di montagna, fa la sua apparizione un'idiota travestito da gremlin!) e L'Architecte de Saint-Gaudens (irritante musical coreografico francese, senz'ombra di dubbio il peggiore, assieme al succitato film di Pierre Lèon, con il quale faceva doppia proiezione) tra i corti. Sempre all'interno di questa categoria (la sezione Pardi di domani), la sorpresa migliore arriva invece dalle Filippine; Sa pagitan ng pagdalaw at paglimot (The Ebb of Forgetting) è infatti il quarto lavoro del giovane Liryc Dela Cruz, già produttore per Lav Diaz, del quale ne ripropone in maniera palese i tratti stilistici (solamente graffiati da un tocco più onirico), a partire da una steppa desolata e monocromatica che vede il vagabondare di una donna in stato confusionale - sembra quasi di riassistere all'ultima ora di Century of Birthing - alla ricerca della propria sorella finchè, un cielo nuvoloso non scinde immagine e tempo, sogni e ricordi, spostando l'azione a bordo di un aereo di linea. Ottimo lavoro, ma stritolato in un metraggio che purtroppo non ne favorisce la completa carica espressiva, per il buon Liryc quindi, non resta che sperare al più presto nella prova di un lungometraggio. A seguire positivamente: La rivière sous la langue, della ginevrina Carmen Jaquier (già premiata nel 2011 con un Pardino d’argento per l'ancora invisto Le tombeau des filles), interessante dissezione della personalità femminile attraverso gli intimi turbamenti all'interno di un piccolo nucleo famigliare (una madre e le sue due figlie), riaffiorati a stretto contatto con la Natura, dopo la scoperta di un diario. E per concludere questa sezione dei corti, il brasiliano O Teto Sobre Nós; opera oscura e claustrofobica (a tratti quasi apocalittica) incentrata su un gruppo di abusivi occupanti un edificio abbandonato e prossimi allo sfratto, ma che ammetto, probabilmente non ho colto in profondità poichè, nonostante l'ottima realizzazione (e un finale al cardiopalma), non è riuscito a sorprendermi più di tanto.

In ordine, da sinistra a destra: Deux Rémi, deux | Ein Ort wie dieser | Maria do Mar | L'Architecte de Saint-Gaudens

Chiusa questa prima parentesi, concentriamoci ora sui pezzi grossi (i film del Concorso internazionale e gli immancabili Cineasti del presente), ma prima di soffermarci sull'opera più naufragante del festival, due segnalazioni veloci tra i film che si potevano anche evitare: Siembra, opera prima della coppia Rojas/Álvarez, che poggia sull'impeto scaturito dalla musica e dalla tradizione folkloristica dell'entroterra colombiano per tratteggiare la storia di Turco, un pescatore arrivato dalla Costa del Pacifico, alla sconfortante ricerca di un luogo per dare sepoltura al figlio Yosner, e cercare di ricostruire così le proprie radici in una nuova terra, lontana da quella desiderata. Idea allettevole sulla carta, ma che si perde in una stesura tediosa dove i rituali danzanti occupano lo spazio maggiore, e i frangenti più interessanti vengono relegati solamente agli ultimi minuti. Alquanto soporifero, è anche il cargo protagonista di Dead Slow Ahead; imponente documentario marino immaginato come un apologo fantascientifico dove un'umanità (in)visibile è oramai divorata dal progresso industriale. Contemplazione di una meccanicità in estenuante movimento che a tratti potrebbe anche ricordare il Weerasethakul di Syndromes and a Century, ma di fatto, il film di Mauro Herce non eccede (se non per alcuni esterni dal fascino pittorico, seguiti da lunghe carrellate orizzontali), finendo semmai per inabissarsi assieme ai suoi impercettibili naviganti in quell'oceano/spazio che lo vede unico ingranaggio mobile. Parlando di sommersioni, arriviamo alla nota più dolente. Si, perchè proprio l'atteso Chevalier, della oramai consolidata Athina Rachel Tsangari, si è rivelata personalmente la più grossa delusione del festival, incapsulando (per usare un termine strettamente legato alla folgorante e al contempo antitetica/estetica opera precedente della regista, The Capsule) sei uomini a bordo di un lussuoso yatch attraccato sulle coste del mar Egeo, impegnati in un bizzarro gioco di paragoni e privo di regole precise, se non allo scopo d'instaurare una rivalità reciproca, finendo per portare a galla ansie e complessi in ognuno di loro. Un film che in definitiva (ri)svela il solito giochino di emulazioni marcate e rimarcate dall'ingegnosa (ai tempi) new-wave ellenica (qui, oltretutto privata totalmente dell'originalità di quell'estetica accorpante) e che ad oggi, non aggiunge nulla di nuovo al suddetto stile, ma che al contrario, sembra decretarne irrimediabilmente il naufragio, (ri)calcando gli ultimi passi del connazionale Lanthimos (penso al per nulla promettente The Lobster), verso la rassicurante culla dell'industria americana. La cosa migliore di Chevalier resta quindi il manifesto, ritraente un timone con dei membri in erezione al posto delle manopole. Particolarità, che sembra piacere ai selezionatori di questa edizione dato che anche nell'israeliano Tikkun (leggo ora, che si è aggiudicato il Premio Speciale della Giuria), il religioso protagonista Haim-Aaron, confratello della setta chassidica di Gur (uno dei più radicali movimenti ebraici ortodossi) finisce in coma apparente per un incidente causato in qualmodo dall'osservazione del suo pene durante una "imprevedibile" erezione. Detto così sembra alquanto grottesco, ma il film di Avishai Sivan è in realtà un profondissimo viaggio di conversione interiore; dalle prime manifestazioni del disagio alla conflittuale ricerca del desiderio, fino alla scoperta (rivelata in un epilogo visionario e avvolto in una nebbia estetizzante, che materializza di colpo l'esplicita visione courbetiana de l'origine du monde) di quel mondo da lui ancora inesplorato e dal quale, era finora rimasto protetto. Indubitatamente uno dei migliori film del festival e che, nella sua esplorazione di una sessualità per certi aspetti perturbata se la gioca (anche nella personale graduatoria) con Dark in the White Light (Sulanga gini aran) dell'interessante regista nativo dello Sri Lanka Vimukthi Jayasundara; opera dall'inizializzazione corale dove, tra la contemplativa ricerca di risposte sulla spiritualità di un monaco buddista, i loschi affari di un trafficante d'organi e le personali possibilità testate da un aspirante medico, la parte del villain finisce per ricadere (focalizzando così gran parte del film) sulla subdola figura di un chirurgo dalla doppia attività/vita di "sanatore". Quasi una sorta di Le Gars dumontiano coabitante in un universo di corpi perduti al confine tra la vita e la morte (consiglio di leggervi l'ottima recensione di Cinepaxy, qui). Altre cose da segnalare prima dei due personali capolavori del festival; ovviamente, l'attesissima ultima fatica di Zulawski, che dopo un vuoto temporale di quindici anni riappare dietro la macchina da presa con Cosmos (Pardo per la miglior regia). Chiariamo subito, che aspettarsi un ritorno ai visionari e turbolenti eccessi del passato era alquanto improbabile (lo stesso regista ha dichiarato che certi film li si potevano realizzare a trent'anni, oggi c'è più spensieratezza) però, le misteriose vicende che si susseguono all'interno dello stravagante e nevrotico microcosmo famigliare intessuto da Zulawski, coinvolgono, e l'impronta stilistica dell'autore, seppur venata da un'inaspettata ilarità di fondo, si riconosce all'istante. Il tempo ha comunque preservato quel suo ritmo schizofrenico; gli immancabili virtuosismi di camera; la capillare cura dei dettagli; i toni esuberanti e i colori, ora ravvivati alla luce di uno stile contemporaneo che, a tratti, sembra strizzare l'occhio al cinema di Xavier Dolan. Ugualmente avvalorata da un montaggio frenetico e assolutamente ingegnoso è invece la pellicola più sperimentale di questa edizione; The Forbidden Room, co-diretto insieme a Evan Johnson da un regista che il sottoscritto, in tutta onestà, non ha mai apprezzato particolarmente: Guy Maddin. L'esile filo tramistico (e pure questo, a suo modo corale) è un mero pretesto per la psichedelica sovrimpressione/fusione tra fotogrammi di repertorio, immagini intaccate da graffi e deterioramenti, e vignette rappresentative realizzate sugli storici stilemi del cinema muto; una perseveranza, nel cinema del canadese, che stavolta però si serve dei cromatismi per deflagrare in un'immagine che violenta l'occhio; un autentico inferno caleidoscopico dall'impatto visivo sicuramente magnetico, ma che visto il taglio formale, fruito nella sua durata di centotrenta minuti e passa, potrebbe anche risultare pesantuccio. Frammenti di innovazione stilistica anche nell'inafferrabile Lu bian ye can (Kaili Blues), del cinese Gan Bi, opera non indifferente sospesa tra tempo e soffuso onirismo, ma anche dalla costante incertezza estimativa, incentrata sul lungo viaggio in treno di un medico (ma quell'immagine dell'orologio che scandisce il tempo sovrimpressa sul finestrino, non si riesce proprio a guardare!), dove la nota veramente interessante è largita da un ipnotico piano sequenza di ben quaranta minuti durante il quale, la camera, segue ondivaga e avvolgente il movimento di alcuni personaggi mentre attraversano la falotica cittadina di Dangmai. Dalla Cina all'aspra catena montuosa dell'Atlante, in Marocco, per via proseguire attraverso un deserto assolato di fronte al quale, in sala, molti si sono arresi. L'ultimo seducente viaggio di Ben Rivers si riserva la seconda preferenza assoluta in questo personale bilancio. Girato come di consuetudine in un 16mm sgranato, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers, è forse l'opera più ambiziosa dell'artista/cineasta britannico; un docu-film, complesso, che prende le mosse da origini remote. Il titolo (fenomenale) infatti, venne origliato cinquant'anni fa da Paul Bowles all'interno di un bar, il quale finì per scrivere una storia su quella frase. È una frase che nel tempo diventa un'ossessione, spingendo Rivers ad intessere altri pensieri sul cinema, e su quanto oltre ci si possa spingere per realizzarlo; ed è la frase, che nell'incipt, il regista-protagonista (interpretato da Oliver Laxe, già autore di Y las chimeneas decidieron escapar) compita di fronte alla cinepresa di una troupe alle prese proprio con la realizzazione di un film. Finchè l'uomo abbandona misteriosamente il set, per inoltrarsi alla volta di un cammino interminabile e abissale, costellato da supplizi e follia che finiscono per oltrepassare i sostrati dell'illusione filmica. In definitiva, e in maniera del tutto embrionale, The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers lo si potrebbe definire come una sorta di deumanizzazione tsukamotoiana in salsa etnografica, sulla quale sarà assolutamente opportuno tornare, con un adeguato approfondimento. Il viaggio, e le sue distanze temporali, sono sempre stati una costante anche nel cinema più avanguardista della veterana Chantal Akerman, che a quarant'anni esatti dal suo acclamato capolavoro (Jeanne Dielman. 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles), rinverdisce i fasti del passato. Il suo toccante documentario No Home Movie (vergognosamente sottovalutato dalla giuria), è infatti l'opera favorita dal sottoscritto; una mirabile testimonianza d'amore e un'intima riflessione sul tempo che scorre, che inevitabilmente ci separa dalle persone più care, come può esserla una madre, ma che al contempo (grazie alla tecnologia) ne analizza le possibilità per accorciarne le distanze. Per chi non ne fosse a conoscenza, la madre della cineasta belga ora non c'è più ("È un film su mia madre; era arrivata in Belgio nel 1938, in fuga dalla Polonia, dalle atrocità e dai pogrom. Qui la vediamo solo nel suo appartamento. Un film sul mondo che cambia e che mia madre non vede") e questa perdita, non può che riflettersi con tutta la sua disperata forza su quell'arbusto decadente scosso dalla violenza del vento a inizio film. Come non cogliere la profondità di tale immagine, se non altro, dopo aver assistito per centodieci minuti all'intenso rapporto che per una vita intera ha legato due persone svelandone abitudini, ricordi, emozioni. Le giuste parole per un'opera d'immenso calibro come questa non possono trovare qui, ed ora, in postilla a questi resoconti, lo spazio più idoneo. Al momento, mi permetto però di concludere pronunciandomi che trovo alquanto refrattario, sentire/leggere (ancora ad oggi, specialmente di questi tempi), probabili interrogativi sul perchè la camera fissa inquadri per un determinato lasso di tempo una stanza completamente vuota, o le sabbiose lande di un deserto (materiale oltretutto filmato per la videoinstallazione Now - e già il titolo dovrebbe far riflettere). Ma d'altronde è appurato; per uno che apprezza (e magari coglie, nella sensibilità dell'autore), c'è ne saranno sempre cinquanta che alla vista di un albero spoglio abbandonano la sala, preferendo magari riunirsi ai banchetti celebrativi delle star e starlette di turno.
Bon voyage!


15) Deux Rémi, deux (Pierre Léon) | L'Architecte de Saint-Gaudens (
Julie Desprairies, Serge Bozon) | Ein Ort wie dieser (Philip Meyer) | Maria do Mar (
João Rosas)
  
14) L'invisible
Fabrice Aragno
Svizzera, 2015 | 30 minuti
 
13) Chevalier
Athina Rachel Tsangari
Grecia, 2015 | 99 minuti
 
12) Siembra
Ángela Osorio Rojas, Santiago Lozano Álvarez
Colombia, Germania, 2015 | 80 minuti
 
11) O Teto Sobre Nós
Bruno Carboni
Brasile, 2015 | 22 minuti
 
10) Dead Slow Ahead
Mauro Herce
Spagna, Francia, 2015 | 74 minuti
 
9) La rivière sous la langue
Carmen Jaquier
Svizzera, 2015 | 18 minuti
 
8) Lu bian ye can (Kaili Blues)
Gan Bi
Cina, 2015 | 113 minuti
 
7) Sa pagitan ng pagdalaw at paglimot (The Ebb of Forgetting)
Liryc Dela Cruz
Filippine, 2015 | 14 minuti
 
6) The Forbidden Room
Guy Maddin, Evan Johnson
Canada, 2015 | 132 minuti
 
5) Cosmos
Andrzej Zulawski
Francia, Portogallo, 2015 | 103 minuti (Pardo per la miglior regia)
 
4) Dark in the White Light (Sulanga gini aran)
Vimukthi Jayasundara
Sri Lanka, 2015 | 82 minuti
 
3) Tikkun
Avishai Sivan
Israele, 2015 | 120 minuti (Premio Speciale della Giuria)
 
2) The Sky Trembles and the Earth Is Afraid and the Two Eyes Are Not Brothers
Ben Rivers
Uk, 2015 | 98 minuti
 
1) No Home Movie
Chantal Akerman
Belgio, Francia, 2015 | 115 minuti

16 commenti:

  1. quasi come esserci stato :)
    grazie delle dritte

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Vero? :)
      Di nulla, diciamo che Tikkun, e specialmente Cosmos, potrebbero anche avere una possibilità di distribuzione da noi, speriamo!

      Elimina
  2. Io invece leggo tutto fino in fondo, e con molto piacere ;)
    In questi giorni ho seguito i tuoi voti su Mubi, e mi fa un immenso piacere sapere che i due ''tuoi'' capolavori siano le opere di due registi da me molto stimati.
    Mi spiace invece molto per ''Chevalier'' della Tsangari pensando soprattutto ai precedenti ''Attenberg'' e ''The Capsule''.
    ''Tikkun'' mi ispira molto, sembrerebbe nelle mie corde...
    ''Cosmos'', seppur non abbia in generale convinto pienamente, se ci sarà la possibilità, non me lo farò sfuggire.
    Anche ''Dark in the White Light'' sembra convincente (cinepaxy mi ha convinto con la loro recensione;)

    Purtroppo la quasi certa impossibilità di vedere quei due capolavori mi intristisce parecchio :(

    Comunque grazie Frank per questo post che mi ha in qualche modo fatto sentire le emozioni festivaliere.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Gentile come sempre Pietro :)
      Quello di Rivers è senza dubbio il suo miglior lavoro tra quelli finora visti. Sulla Akerman, sinceramente non riponevo moltissime speranze, ed invece è stata una sorpresa inaspettata. Per me siamo agli stessi livelli (o pochissimo ci manca) di Jeanne Dielman! Al momento si dovrà portare pazienza, ma col tempo tutto si recupera, non disperare ;)
      Tikkun ha lavorato molto nella mia testa da quando sono tornato, il primo impatto non era stato convincente al massimo, ma ripensandoci poi è innegabile la sua potenzialità, uno dei film più belli, sicuro.
      Comunque sia Zulawski me lo sono goduto, certo, manca la veemenza dei trascorsi, ma il film funziona, secondo me avrà anche buone possibilità di venir distribuito.
      Anche Dark in the White Light, l'ho apprezzato all'istante. Se la gioca con Tikkun ma come ti dicevo poc'anzi, con il tempo quest'ultimo l'ho forse sentito maggiormente.
      Felice pure io di averti fatto provare, per quanto possibile, le emozioni del festival ;)
      Ciao!

      Elimina
  3. Post interessantissimo e come sai siamo d'accordo praticamente su tutto, specialmente sulle doverose riflessioni riguardanti il Festival e le aspettative di chi ci va. Quest'anno è stato abbastanza deludente ma i due capolavori (come li hai giustamente definiti tu) visti poco prima di andarcene, hanno decisamente fatto valere la pena del tutto. Bello sapere poi che tu abbia rivalutato maggiormente "Tikkun", a questo punto aspettiamo di vedere cosa ne scriverai nella futura rece! :)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. "Quest'anno è stato abbastanza deludente"... Diciamo che per certi aspetti, tra film dove abbiamo vergognosamente toppato e gente che rideva in sala (anche sui film seri) è sembrato il festival della commedia :D
      A ogni modo non mi lamento assolutamente, direi che un filmone al giorno lo abbiamo visto comunque (e Tikkun, è uno di questi), anche senza quei due capolavori ;)

      Elimina
  4. Otesanek23:49

    Ciao Frank,
    grazie del completo e interessante resoconto, spero che presto o tardi si riesca a recuperare qualcuna di queste pellicole (per lo meno le più interessanti da te segnalate). Mi spiace leggere della delusione per il nuovo film della Tsangari, però concordo con te sui pessimi sviluppi della new wave greca, un vero peccato. Devo ammettere però, e so di essere in minoranza, di nutrire ancora qualche speranza per The Lobster, nonostante l'apparente apertura nei confronti del mainstream anglofono, a partire dalle scelte attoriali.
    Tikkun sembra interessantissimo comunque, speriamo davvero in una distribuzione nazionale.

    Su Maddin temo di trovarmi in disaccordo con te (per certi versi era anche ora :)), a me piace molto a partire da My Winnipeg che trovai meraviglioso nella sua personalissima abolizione dei confini tra realtà e finzione (di volta in volta sovrapposte, mescolate, trasfigurate) e per un approccio all'autobiografia che mi parve tanto sentito quanto genuinamente divertente. Anche per questo, The Forbidden Room mi incuriosisce molto e le tue parole lasciano ben sperare.

    Ben Rivers, se non di fama, invece non lo conosco per nulla. Potresti consigliarmi qualcosa di suo?

    Ciao e grazie ancora.

    Otis

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Otis,
      Credo che la Tsangari sia stata una delusione per molti di noi, da sempre attratti da uno stile eccentrico qual'è (stata) la new-wave ellenica. Ma al contempo non escludo la possibilità che possa stimolare un pubblico più mainstream. Prima della sua presentazione a Cannes, anch'io io nutrivo aspettative favorevoli su The Lobster, ma il timore di una seconda delusione è sempre maggiore, oltretutto dopo aver visionato trailer ed excerpt vari...
      Se apprezzi Maddin, allora troverai indubbiamente entusiasmante questo suo ultimo lavoro, dato che anche il sottoscritto, questa volta, si è lasciato coinvolgere ;)
      Rivers è uno che opera prevalentemente nei corti, ne ha fatti parecchi, e di conseguenza lo sto esplorando a poco a poco anch'io. Al momento però posso consigliarti sicuramente i suoi due lungometraggi più significativi: "Two Years at Sea", e l'immenso "A Spell to Ward off the Darkness", co-diretto con Ben Russell...
      Grazie a te, a presto!

      Elimina
  5. Ciao Frank, grazie, sapevo di poter contare su di te per un resoconto del festival, seppur parziale. Allora devo recuperare almeno Cosmos (ma non avevo dubbi) e Dark in the White Light, se riesco.
    Io anche quest'anno sono riuscito a fare un salto a Locarno, ma solo una toccata e fuga, giusto il tempo di ammirare l'ultimo Barbet Schroeder in Piazza Grande e Tikkun il mattino successivo. Nel mio programma avrebbe dovuto rientrare anche "Right Now, Wrong Then" (poi Pardo d'Oro) ma all'ultimo ho deciso di lasciar perdere, memore di una precedente, non proprio eccelsa esperienza con il regista Hong Sang-soo (avevo visto "The Day a Pig Fell into the Well" che.. beh... non mi ha proprio entusiasmato, anche se generalmente è recensito bene). Amnesia mi è piaciuto ma, soprattutto, concordo con il tuo entusiasmo per Tikkun, un film grandioso che ancora oggi, dopo una settimana dalla visione, mi passa davanti agli occhi non appena abbasso le palpebre. Sono così tanti gli argomenti trattati oltre a quello principale che, come hai fatto notare, è il processo di conversione interiore del protagonista, ma confesso che lì per lì l’ho interpretato soprattutto come l’esplicazione dell’ineluttabilità del fato. Il protagonista "muore" una prima volta nella vasca da bagno. Forse proprio per via di quel guizzo involontario del suo corpo che lo fa deviare dalla sua ortodossia (è difficile non pensare alle numerose e stringenti regole cui i fedeli del film devono sottostare…. così che il destino di Haim-Aaron si compie nel momento esatto in cui sopraggiunge un’erezione perché avviene in lui un cambiamento che in prima sostanza è la perdita della fede). È una morte a cui viene sottratto ma che non lo abbandona del tutto, e dopo è come se lui si spostasse su un piano completamente differente e tutto ciò che farà da quel momento in poi sarà solo parte di un percorso che lo porterà a ricongiungersi con il suo destino. Insomma lui non appartiene più al mondo di prima, quello di suo padre, ma non riesce neanche a divenire parte del mondo delle persone “normali” (vedesi la scena della prostituta) … ecco, “fantasma” è la parola che mi veniva in mente e che mi sembrava del tutto fuori luogo parlando di ebraismo, ma leggendo poi del significato del termine tikkun olam (una resurrezione prima della fine dei tempi concessa a coloro che devono portare a compimento qualcosa che in vita hanno lasciato in sospeso) forse non ero troppo lontano dal vero. Così come sono fantasmi i manzi destinati al macello una volta liberati (e per loro si compie lo stesso destino del protagonista). Ci sono numerosi simbolismi (e indizi, per esempio le conversazioni con il fratellino che sicuramente erano più profonde di come sembravano, ma dovrei risentirle) che bisognerebbe analizzare meglio, peccato che la mia conoscenza della religione ebraica non sia sufficiente per cogliere tutte le sfumature. Non saprei nemmeno dire se ciò che ho visto nel film equivalga a ciò che il regista voleva trasmettere o se concettualmente non c’entra niente, ma tant’è. E’ molto stimolante pensarci. Sto studiando ^_^

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao Obsidian, a quanto pare ci siamo sfiorati anche quest'anno. Perchè rileggendo ora il programma ho visto che Amnesia lo proiettavano la sera del 12, e mentre tu eri in Piazza Grande, io ero a La Sala, immerso nelle deliranti visioni di The Forbidden Room, ultima proiezione prima del mio ritorno a casa. Per l'anno prossimo sarà buona cosa scambiarci magari i numeri, nel caso dovessi fare un'altra toccata e fuga, almeno cogliamo l'occasione per un caffè e quattro chiacchere :)
      Riguardo a Tikkun, ovviamente mi è sembrato opportuno sottolineare la tematica a suo modo portante e di più immediata ricezione, quella della conversione, per semplici motivi di spazio, visto lo scopo di dedicare a ogni film segnalato una breve descrizione. Ma ti dirò, che il tuo pensiero sul fatto che il protagonista possa in qualmodo "vivere"una seconda volta (o meglio, fruire di una seconda vita), è parecchio simile allo stesso che, molto istintivamente, ho avuto pure io a visione terminata. Lì per lì mi aveva infatti attraversato il pensiero che in quella vasca da bagno, lui ci muoia veramente (che entri in coma e che al contrario di quanto mostrato non riescano mai più a rianimarlo), per fatalità, in corrispondenza proprio con quel periodo di interrogativi sulla fede che lo scuotevano interiormente. E tutto ciò che ne segue, sembra in effetti il processo di un cercato ed ossessivo desiderio vissuto in una sorta di limbo al confine tra la vita e la morte; un luogo e un tempo che possano appunto concedere (come riportano le tue ricerche sul significato del titolo) ad Haim-Aaron l'opportunità di completare, o sperimentare prima del reale sopraggiungere della fine, quello che in vita avrebbe desiderato. Certo, il film è colmo di simbolismi e a prescindere dall'argomento principale, con qualsiasi analisi operata più in profondità (oltretutto, senza le adeguate conoscenze sulla religione ebraica), non siamo affatto esenti dal rischio di travisare quello che realmente Sivan voleva trasmettere. Queste tue argute riflessioni però mi convincono moltissimo, e non posso che ringraziarti per averle esposte qui. Hai intenzione di scriverne un futuro post? Te lo chiedo perchè ci stavo pensando pure io, e visto che le impressioni da entrambi colte si associano abbastanza bene, non sarebbe male l'idea di farne uno a quattro mani da pubblicare poi in simultanea sui nostri blog. Se sei interessato possiamo sentirci via mail (la trovi nel mio profilo), fammi sapere...

      Elimina
  6. Guarda che in "Now" non c'è la macchina fissa...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Appunto, i frammenti desertici che intervallano i dialoghi nell'appartamento con la madre, sono in movimento ;)

      Elimina
    2. Appunto, mentre tu parlavi di macchina fissa ;)

      Elimina
    3. Puntualizzo e specifico: a macchina fissa la stanza vuota. Nel contesto della critica Il deserto l'ho menzionato solo come riferimento alla gente che abbandonava la sala, indipendentemente da camera fissa o meno. Stessa cosa poteva valere per l'albero spoglio.

      Elimina
  7. "Cosmos" è anche un gran bel film turco di Reha Erdem (non c'entra, mi è venuto in mente)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Quello di Erdem è con la "K"- osmos... Lo conosco, a mio parere il suo film migliore, straordinario!

      Elimina