5.7.14

Exhibition

Joanna Hogg
Uk, 2013
104 minuti

Da qualunque prospettiva la si veda o qualunque sia l'opinione che  vada a cadere, alla fine, sul terzo e ultimo lungometraggio dell'ex fotografa inglese Joanna Hogg (in concorso a Locarno 66), una cosa è appurata: Exhibition, pone le sue fondamenta nel nome di James Melvin, architetto recentemente scomparso, e al quale il film è dedicato(1). Quindi, cinema votato a "geometrie esistenziali" innanzitutto, da contemplare in tutte le sue forme e percezioni.
Composto da profili, inclinazioni, angoli, curve, pareti, infissi, porte scorrevoli e vetrate che, nel loro taglio minimalista, ci restituiscono un ambiente asettico e dal gusto avveniristico. Trattasi di una villetta costruita su due piani, situata in un rigoglioso quartiere londinese (originariamente, il film doveva infatti intitolarsi The London Project), appartenente a una moderna coppia di coniugi (performance-artist lei, architetto lui) di cui conosciamo solo le iniziali: D. e H. Lui, senza spiegazione a noi dovuta, decide di mettere in vendita la casa dopo due decenni di convivenza e Lei, affezionata in maniera quasi ossessiva a quel luogo, attraversa una crisi atta a destabilizzarne il controllo sugli aspetti relazionali, e professionali (un probabile arresto della creatività), della propria vita. Un processo di commiato dunque, che appare come una sorta di "elaborazione del lutto", tema già ampiamente affrontato, certo, ma che la Hogg dimostra di riformulare sotto una prospettiva originale e intelligente.
Già il fatto stesso di privare i personaggi di un nome, manifesta fin da subito come sia la dimora, il contenitore vitale che assimila ansie e umori, ricordi e sensazioni di chi ci ci abita. Un luogo che nella sua immobilità(2), respira, che stabilisce un rapporto emotivo fondamentale nell'interazione tra lo spazio e il corpo, diventando a tutti gli effetti la vera anima del film. E così, l'iniziale apprensione per la futura perdita di questo spazio, condiviso ed interiorizzato millimetricamente, non può che accentuare il sentore di un logorio del rapporto coniugale che è già percepibile nella distanza (la tortuosità di una scala a chiocciola, a fare da colonna di transito per la congiunzione/disgiunzione della coppia) che separa i due durante il giorno; lui al piano di sopra, lei a quello sottostante, ognuno al lavoro nel suo studio, ognuno indipendente nei propri spazi ma al contempo, aditi di reciproche osservazioni grazie alle ampie vetrate che strutturano gran parte della moderna abitazione. E' un continuo gioco di luci e riflessi che traspaiono da un piano all'altro, dall'interno all'esterno dell'abitazione (le tapparelle a nastro; fessure da cui poter osservare il mondo, dalle quali potersi esibire, anche impudentemente). E' una simmetria di linee dove anche i corpi vengono frazionati (occhio al consueto abbigliamento di Lei), dipanandosi, assumendo un'aspetto evanescente che è esplicativo di tutta la fragilità di quel rapporto, la cui probabile risaldatura può intravedersi solo a compimento di un amplesso a lungo atteso (ma cercato nell'intimità di D.), che come in Mes Seances de Lutte (2013), del francese Jacques Doillon, è produttivo nel riequilibrare, almeno in parte, lo stato delle cose. A pari merito, indicativa e metaforica resta la sequenza del taglio della singolare torta (la stessa abitazione, completa di giardino e "grande albero", riprodotta in marzapane) e la sua condivisione con amici e conoscenti. Una festa d'addio che assume i toni di un rituale propiziatorio mentre all'esterno, divampano i fuochi di un prestigiatore, pronti a trasformarsi in un'estatica coreografia floreale che si tinge di rosa. Ma è attraverso le ricercate performance di D. che Exhibition raggiunge i massimi vertici della sua potenza estetica; nell'esigenza, insita nella donna, di riappropriarsi delle proprie espressioni artistiche fino a rimodellarne il corpo, conformandolo stilisticamente ad ogni piega dell'abitazione (le prove figurative alla finestra, sotto il tavolo, a ridosso delle pareti). Sia che esso si raffiguri come oggetto ornamentale cingendo una pietra in giardino, sia che raggiunga una vera e propria simbiosi, configurandosi come parte integrante dell'ambiente. Ecco che il corpo allora, riacquista la capacità di compenetrare uno spazio che possa assorbirne l'essenza e gli stati d'animo, assumendone a sua volta, tutta l'architettura.

(1) James Melvin era un amico della regista. La casa del film da lui realizzata, la si può ammirare nella West London.
 
(2) Il film è composto totalmente da riprese a camera fissa. Una curiosità riguardo Joanna Hogg, nata a Londra nel 1960: ha iniziato la sua carriera cinematografica filmando con una videocamera Super8, ricevuta in prestito dal suo mentore Derek Jarman.

6 commenti:

  1. Avevo iniziato a guardarlo, ma alla fine mi sono addormentato. Un po' per stanchezza e un po' perché lo trovavo un film che, al di là della genialità che gli fa da amartia (la rappresentazione architettonica dei corpi), non avrebbe avuto molto da dirmi o, meglio, da farmi esperire. Vista la recensione, però, una seconda occasione la merita.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Mi sa che però, difficilmente cambierai opinione, almeno credo. A me è piaciuto molto ma rivedendolo, si è fatto largo il presentimento che in effetti, non sia troppo nelle tue corde. Curiosamente invece, mi hai ricordato che dovevo ripassare da te per un'opinione su "Todo, en fin, el silencio la ocupaba". Il problema, è che come te mi sono addormentato, e quella mezzoretta vista non mi ha detto granchè, troppo teatrale direi... Dovrò riprenderlo per mano.

      Elimina
    2. "Todo, en fin..." è un gran film. Può non piacere, d'accordo, ma credo sia un'esperienza importante del cinema perché, come "Ne change rien", riesce a cogliere l'arte nel suo farsi/disfarsi. Il che, detto molto banalmente, è l'apice cui possa tendere un cinema narrativo.

      Elimina
    3. Todo ben?... Dònde tu es perdido?...

      Elimina
  2. Dopo Exhibition ho visionato l'opera precedente della Hogg, Archipelago (2011) ed anche secondo me ci troviamo di fronte ad una protagonista di primo piano di questa sorta di British Renaissance cinematografica: vedi le opere di Ben Rivers , Jonathan Glazer, Richard Ayoade ( anche se The Double mi è sembrato più pretenzioso e meno sbarazzino del precedente Submarine ), Paul Wright. Che ne pensate ?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. In Archipelago, effettivamente si notano segnali molto simili a questo Exhibition, anche se in generale, secondo me non raggiunge la stessa potenza espressiva. E' un giusto ponte con l'opera precdente, Unrelated, che però non mi ha detto granchè. Non ci trovo invece accostamenti con il cinema di Rivers, che è decisamente più documentaristico e anche, sperimentale. I film che citi non li ho visti, li terrò comunque in considerazione, grazie!

      Elimina